venerdì 04/04/2025 • 06:00
È illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per non aver comunicato tempestivamente il prolungamento della malattia e, nel termine previsto dal CCNL, il numero di protocollo identificativo del certificato trasmesso dal medico in via telematica (Cass. 24 marzo 2025 n. 7828).
Il caso
Una società avviava un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente rimasto assente per n. 4 giorni, dal 14 al 18 febbraio 2022, senza avvertire della malattia e senza comunicare, nel termine previsto dal CCNL di settore, il numero di protocollo identificativo del certificato trasmesso telematicamente dal medico.
Solo il 18 febbraio 2022, il lavoratore inviava un certificato di malattia, redatto all'esito di visita ambulatoriale, retroattivo a copertura dei giorni di assenza dei 4 giorni precedenti, con prognosi sino al successivo 4 marzo.
Il procedimento disciplinare si concludeva con il licenziamento per giusta causa del lavoratore, che decideva di impugnarlo.
In primo grado veniva confermato il rigetto dell'impugnativa adottato con ordinanza all'esito della fase sommaria; invece, in appello veniva accolto il reclamo proposto dal lavoratore.
La Corte distrettuale dichiarava illegittimo il licenziamento e risolto il rapporto di lavoro, condannando la società, ai sensi dell'art. 18 c. 5 L. 300/70, al pagamento dell'indennità risarcitoria liquidata in 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte d'Appello, pur ritenendo non provato l'impedimento del lavoratore atto a giustificare il mancato tempestivo invio del certificato di prolungamento della malattia, riteneva sproporzionata la sanzione espulsiva alla luce dei seguenti elementi:
La società è ricorsa in Cassazione avverso la decisione di merito, affidandosi a otto motivi, a cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
La società, tra gli altri, ha eccepito che i giudici di merito:
Valenza esemplificativa delle ipotesi di licenziamento disciplinare
La Corte di Cassazione, investita della causa, rammenta che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo contenuta nei contratti collettivi ha una valenza meramente esemplificativa, data la natura legale della loro definizione, la quale non preclude un'autonoma valutazione da parte del giudice di merito (cfr. Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass. n. 5372/2004; Cass. 27004/2018). Al giudice spetta, infatti, valutare la gravità del fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata dal datore di lavoro, considerando gli elementi del caso concreto.
La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei parametri di riferimento per dare contenuto alla clausola generale di cui all'art. 2119 c.c. (cfr. Cass. n. 1732/2020; Cass. n. 16784/2020). A conferma di quanto esposto viene citato l'art. 30 L. 183/2010 secondo il quale il giudice “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale (…)”.
Pertanto, ad avviso della Corte di Cassazione, erra la società nel considerare le disposizioni della contrattazione collettiva in materia di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento come rigide predeterminazioni degli illeciti disciplinari, escludendo ogni valutazione da parte del giudice.
Oltretutto, continua la Corte di Cassazione, l'interpretazione data dalla società è in contrasto con l'art. 2106 c.c. che impone la proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione commessa come requisito di legittimità del procedimento disciplinare. Proporzionalità che deve essere verificata attraverso un accertamento concreto delle caratteristiche della condotta, considerando sia gli aspetti oggettivi e soggettivi della fattispecie.
Le disposizioni del CCNL possono avere efficacia impeditiva di una diversa valutazione solo se sono più favorevoli al lavoratore, ossia se la condotta addebitata quale causa di licenziamento rientra tra le infrazioni punibili con una misura conservativa. In tal caso “il giudice non può considerare legittimo il licenziamento, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione della minore gravità di quel particolare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari”. Ciò significa che il giudice non si può discostare dalle previsioni del CCNL a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva.
Riqualificazione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo
La Corte di Cassazione osserva, innanzitutto, che in sede di impugnazione è ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Ciò in quanto, dette causali rappresentano mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, seppur l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso.
Inoltre, il giudice, anche in assenza di una specifica richiesta e senza violare l'art. 112 c.p.c., può valutare un licenziamento intimato per giusta causa come per giustificato motivo soggettivo. Il tutto, fermo restando il principio di immutabilità della contestazione e - persistendo la volontà datoriale di risolvere il rapporto di lavoro – che venga attribuito al fatto commesso la minore gravità propria del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
In sostanza, il giudizio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione all'illecito commesso (rimesso al giudice di merito) implica una valutazione della gravità dell'inadempimento in relazione al concreto rapporto. Il giudizio di adeguatezza della sanzione deve essere valutato considerando l'inadempimento commesso in senso accentuativo, avendo poco rilievo la regola generale della “non scarsa importanza” di cui all'art. 1455 c.c.
Pertanto, la sanzione espulsiva risulta giustificata solo in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
Nel caso in esame, la valutazione dei giudici sulla mancata concreta gravità della condotta addebitata al lavoratore (dovuta all'effettiva sussistenza di una malattia nei giorni di assenza e alla limitata colpa del lavoratore, circoscritta alla mancata tempestiva comunicazione alla società) comporta, secondo la Cassazione, un rigetto implicito della possibilità di ravvisare un giustificato motivo soggettivo di recesso. Questa tipologia di licenziamento, potendo essere configurata in presenza di “un notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali, risulta logicamente incompatibile con il modesto livello di gravità dell'addebito mosso nei confronti del lavoratore.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla società, condannandola al pagamento delle spese del giudizio.
Fonte: Cass. 24 marzo 2025 n. 7828
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