venerdì 06/12/2024 • 06:00
È illegittimo il licenziamento intimato a un dipendente che si è assentato per due settimane a seguito di un fraintendimento con il datore di lavoro che aveva inizialmente respinto, per iscritto, le ferie per poi accoglierle verbalmente. A dichiararlo è la Cassazione, con ordinanza 28 novembre 2024 n. 30612.
Nel caso in esame la Corte d'Appello territorialmente competente aveva confermato la pronuncia di primo grado con cui era stato dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente per assenza ingiustificata.
Il lavoratore aveva chiesto due settimane di ferie, inizialmente respinte, per iscritto dall'azienda, e poi accolte verbalmente ma era rimasta controversa la durata del periodo autorizzato, a fronte della fruizione da parte del medesimo di entrambe le settimane.
Pertanto, visto il fraintendimento delle parti, ad avviso della Corte d'Appello non ricorrevano gli estremi della giusta causa di licenziamento, con conseguente sproporzione della sanzione espulsiva comminata ed applicazione della tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, della Legge n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”).
Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione la società, affidandosi a tre motivi. La stessa, tra le altre, eccepiva che i giudici di merito:
- avrebbero dovuto recepire la graduazione delle sanzioni predisposta dalle parti collettive che prevedeva la sanzione espulsiva per l'assenza ingiustificata per almeno quattro giorni consecutivi;
- nel formulare la loro decisione, non avevano considerato che un'impresa può sempre revocare, per esigenze organizzative e produttive, le ferie già concesse.
Al ricorso presentato dalla società resisteva il lavoratore con controricorso ed entrambe le parti depositavano memoria.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, investita della causa, ribadisce che il giudizio di proporzionalità della sanzione, il quale implica inevitabilmente un apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia, è devoluto al giudice di merito (per tutte Cass. n. 8293/2012). E, detto giudizio è sindacabile in sede di legittimità solo se la motivazione della sentenza impugnata “sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni o argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestatamente ed obiettivamente incomprensibili” (cfr. Cass. n. 14811/2020) e sia stato omesso l'esame “di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità” (per tutte Cass. n. 18715/2016).
Inoltre, le previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari (essendo la nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo una nozione legale) non vincolano il giudice di merito anche se “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.” (per tutte Cass. n. 12365/2019 e Cass. n. 9396/2018). Tant'è che ai sensi dell'art. 30, comma 3, della Legge n. 183/2010nel valutare le motivazioni alla base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo presenti nei contratti collettivi (cfr. Cass. n. 32500/2018).
Orbene, applicando questi principi al caso in esame, la Corte di Cassazione osserva che la valutazione della gravità dell'infrazione commessa dal lavoratore è stata effettuata dai giudici di merito con riferimento agli aspetti concreti concernenti la natura del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, il nocumento eventualmente arrecato, la portata soggettiva dei fatti stessi, ovvero le circostanze del loro verificarsi, i motivi e l'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conferma l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, concludendo per il rigetto del ricorso presentato dalla società e per la sua condanna al pagamento delle spese di lite.
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Debhorah Di Rosa
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