Gli strilloni erano il primo embrionale fulgido esempio di comunicazione commerciale dei giornali i quali, per essere accattivanti, rispondo ai diktat dell'immediatezza, della notizia sconcertante, da apprendere prima e meglio di altri.
Un pò come i social attuali che, captando una sentenza e la massima (forse) della stessa, ne traggono conseguenze granitiche e pret a porter, in un mondo sempre più veloce ed immediato dove l'approfondimento non se la passa gran che bene.
Noi invece, complice l'autunno, vogliamo sentirci un po' nostalgici delle antiche tradizioni.
In effetti sembra impossibile considerare conclusa in sede giudiziaria la questione relativa alla determinazione della retribuzione utile per il periodo feriale.
Se, infatti, in Cassazione si sta affermando l'orientamento che privilegia la (doverosa) analisi e valutazione concreta della pertinenza a tali fini di tutti gli emolumenti corrisposti in costanza di rapporto di lavoro, se e in quanto legati alle mansioni e allo status professionale del lavoratore, non sembra accadere altrettanto con riguardo alla posizione dei giudici di merito. Soprattutto laddove venga rivendicata l'inclusione di specifiche distinte voci – anche per come determinate dalla contrattazione collettiva – nel computo della retribuzione utile per ferie.
Il punto più rilevante di tale posizione è che, se da un punto di vista generale è pur sempre necessario accertare caso per caso il nesso intrinseco tra l'elemento retributivo rivendicato e l'espletamento delle mansioni affidate e, quindi, se l'importo pecuniario rivendicato si ponga in rapporto di stretto collegamento funzionale con le mansioni e l'esecuzione della prestazione, perché correlato allo status personale e professionale di quel determinato lavoratore (cfr. in particolare Cass. n. 13425/2019 cit., così come in modo più specifico Cass. n. 37589/2021 cit.), dall'altro l'adesione generalizzata in questa materia al principio di matrice comunitaria che impone di considerare utili ai fini delle ferie tutti gli emolumenti corrisposti in costanza di rapporto di lavoro - anche quelli non direttamente collegati con la presenza al lavoro - sta portando la giurisprudenza di merito ad allargare eccessivamente il principio, ricomprendendovi ad esempio anche il buono pasto (o ticket restaurant).
Le sentenze di merito
La questione è stata posta con evidenza in questi termini da una sentenza del Tribunale di Benevento (la n. 1351 del 2 dicembre 2021) cui hanno fatto seguito le successive decisioni della Corte d'Appello di Napoli (la n. 553/2023 del 13 febbraio 2023) e della Cassazione (Cass. civ. sez. lav. 27 settembre 2024, n. 25840) che hanno di fatto confermato il giudicato su questo aspetto, non avendo preso posizione specifica sul tema (a differenza di quanto prospettato invece da Cass. civ. sez. lav. 27 settembre 2024, n. 25850 nelle cui premesse si mette invece in evidenza come “il lavoratore appellante, nell'atto di gravame, abbia rinunciato alla domanda per la parte riguardante l'inclusione dei ticket buoni pasto nella retribuzione normale da corrispondere durante le ferie”.
Il Giudice del Tribunale di Benevento ha infatti affermato che, poiché l'accordo collettivo determinativo dell'indennità perequativa e compensativa ha incluso il ticket restaurant nella “retribuzione normale”, tale emolumento deve essere computato anche in relazione alla determinazione della retribuzione utile per le ferie. Afferma infatti il Giudice: “la distribuzione del ticket\pasto, appare come una modalità alternativa di erogazione dell'indennità di mensa, che deve ritenersi rientrare nella retribuzione "normale" in qualunque modo sia gestita e sotto qualsiasi forma erogata”, perché, tra l'altro “non si ravvisa alcuna differenza tra le prestazioni sostitutive della mensa che possono consistere in una erogazione di denaro, in un servizio di mensa organizzato presso centri di ristoro convenzionati o comunque mediante prestazioni in natura, compresi anche i cosiddetti ticket".
In definitiva, a parere del Giudice, il servizio mensa (ovvero il sostitutivo dello stesso caratterizzato dal ticket restaurant) perderebbe la connotazione di retribuzione in natura (cui la legge riconnette peraltro un determinato specifico trattamento fiscale e previdenziale ex art. 51, c. 2 lett. c) TUIR) per effetto della diversa connotazione datagli dalla contrattazione collettiva (nello specifico l'Accordo del 2021 relativo alla determinazione della “indennità perequativa e compensativa” calcolata in maniera fissa ed erogata in maniera continuativa, nella quale erano confluite le indennità già riconosciute in passato, legate anche all'effettiva presenza).
E si legge, ancora, nella sentenza, “il mero riferimento contenuto nell'accordo "all'effettiva presenza\prestazione" non vale ad escluderne la natura di ‘retribuzione normale' ".
Il che apre ad una serie di riflessioni. Da un lato il doveroso rispetto dei principi stabiliti in sede comunitaria – cui il Giudice nazionale è tenuto a conformarsi – perché in base ai principi espressi in questa materia dalla Corte di Giustizia UE con riferimento all'art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, il “diritto alle ferie” non può rischiare di essere compromesso da valutazioni connesse all'eventualità che un determinato emolumento possa essere escluso dal calcolo della retribuzione di riferimento, portando indirettamente il lavoratore a rinunciare al riposo ((cfr. CGUE 15.9.2011, C - 155/10, Williams; CGUE 13.12.2018, C - 385/17, Torsten Hein; ma anche in precedenza CGUE 20.1.2009, C-350/06 e C-520/06, Schultz - Hoff).
Dall'altro l'altrettanto doverosa valutazione di cosa debba intendersi – concretamente e caso per caso - per retribuzione ordinaria ancorché si legge in Cass. civ. n. 25840/2024, ciò che si è inteso assicurare sia “una situazione equiparabile a quella ordinaria del lavoratore nei periodi di lavoro sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall'esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell'Unione. Qualsiasi incentivo o sollecitazione che risulti volto ad indurre i dipendenti a rinunciare alle ferie è infatti incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai lavoratori il beneficio di un riposo effettivo, anche per un'efficace tutela della loro salute e sicurezza”.
Ma ciò non può avvenire attraverso una interpretazione eccessivamente estensiva di tali principi, includendo necessariamente anche il buono pasto, nei termini identificati dal Giudice del Tribunale di Benevento. Tra l'altro, nel caso specifico, la Corte d'Appello di Napoli - n. 553/2023 del 13 febbraio 2023 cit. cui ha fatto seguito Cassazione n. 25840/2024 cit.) - ha espressamente statuito che per il calcolo della retribuzione da corrispondere durante il periodo feriale, la determinazione della nozione di retribuzione di riferimento è sì rimessa alla contrattazione collettiva ma non deve necessariamente avere riguardo ad una nozione onnicomprensiva inclusiva di tutte le voci corrisposte durante il periodo di attività.
Buoni pasto sono retribuzione?
Peraltro, con riguardo specifico al buono pasto, data la sua natura specifica, va altresì evidenziato che il datore di lavoro potrebbe scegliere discrezionalmente di non riconoscerlo: come spesso avvenuto ad esempio durante la pandemia nei casi di prestazione lavorativa in modalità agile ai sensi degli artt. 18-23 L. n. 81/2017 ma esclusivamente dal domicilio del lavoratore (sul punto v. Trib. Venezia 8 luglio 2020, n. 3463; Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2020, n. 16135). Non solo, è la stessa Cassazione che con riferimento alla natura del ticket restaurant ha precisato che non può essere qualificato come “retribuzione”, trattandosi di “un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita - laddove non sia previsto un servizio mensa - la fruizione del pasto” - coerentemente peraltro con la disciplina comunitaria in materia di orario di lavoro. “Il buono pasto non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, in quanto la sua corresponsione - quale agevolazione di carattere assistenziale - piuttosto che porsi in collegamento causale con il lavoro prestato dipende dalla sussistenza di un nesso meramente occasionale con il rapporto di lavoro, secondo la relativa configurazione della contrattazione collettiva cioè con riguardo all'orario di lavoro (settimanale e giornaliero) ivi stabilito per la fruizione dei buoni pasto, nella cornice indicata dal D.Lgs. n. 66/2003, art. 8 di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro)” (v. Cass. civ. sez. lav. 28 novembre 2019, n. 31137).