sabato 22/03/2025 • 06:00
Con ordinanza 10 marzo 2025 n. 6345, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore che aveva rivolto frasi offensive a sfondo sessuale a carico di una collega, qualificandole come vere e proprie molestie.
Il precedente della Cassazione: l'ordinanza n. 7029/2023
Per comprendere la rilevanza di questa pronuncia, occorre fare un piccolo passo indietro nel tempo. Un lavoratore, dipendente di un'azienda di trasporto pubblico locale, era stato licenziato (o meglio, destituito dal servizio, come previsto dal CCNL Autoferrotranvieri) per aver apostrofato una collega – dopo aver appreso del suo stato di gravidanza – con espressioni del tipo: “ma perché sei incinta pure tu”, “ma perché non sei lesbica tu”, “e come sei uscita incinta”.
La sanzione era stata confermata dal Giudice di primo grado, mentre la Corte d'Appello – ritenendo sproporzionata la destituzione dal servizio decisa dall'azienda – aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del recesso, condannando il datore di lavoro al pagamento di un importo pari a 24 mensilità di retribuzione.
Con l'ordinanza n. 7029 del 2023, la Corte di Cassazione aveva cassato la sentenza d'appello nella parte in cui aveva qualificato come “meramente inurbano” – e non costituente dunque offesa o molestia a sfondo sessuale tale da giustificare la risoluzione del rapporto – il comportamento tenuto dal dipendente. In particolare, la Cassazione aveva censurato la valutazione del giudice di merito per avere espresso una valutazione non conforme “ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell'ordinamento” e, dunque, del tutto inadeguata rispetto alla gravità dell'accaduto.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la condotta del dipendente non poteva essere ricondotta ad una mera violazione delle regole di buona educazione, ma doveva essere valutata alla luce dei valori costituzionali di tutela della dignità della persona e del principio di non discriminazione, tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo (articolo 2), il riconoscimento della pari dignità sociale “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo (articolo 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (articolo 35) (Cass. 9 marzo 2023, n. 7029).
In questo quadro, è importante richiamare sia la Convenzione n. 190 dell'OIL del 2019, che ribadisce il diritto dei lavoratori a vivere in un ambiente di lavoro libero da ogni forma di violenza, compresa quella psicologica e sessuale, sia la Raccomandazione n. 206/2019, che offre linee guida pratiche per implementare politiche di prevenzione, gestione e sanzione delle molestie, incoraggiando un approccio globale che coinvolga tutti gli attori del contesto lavorativo, sia, da ultimo, la Direttiva 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, che impone agli Stati membri di rafforzare le misure di prevenzione e contrasto delle molestie sul lavoro, prevedendo sanzioni più severe e politiche aziendali mirate a proteggere le vittime.
Possibili conseguenze per i datori di lavoro: opportunità di adottare misure preventive adeguate
La sentenza offre anche lo spunto per ricordare che, in caso di violazione dei principi sopra descritti in materia di molestie sessuali sul luogo di lavoro, le conseguenze per i datori di lavoro possono essere assai rilevanti.
Ricordiamo, infatti, che l'obbligo di adottare adeguate misure di prevenzione contro le molestie sessuali rientra a pieno titolo nel c.d. “debito di sicurezza” previsto dal combinato disposto degli artt. 2087 c.c. e 26, comma 3-ter, D. Lgs. n. 198/2006, secondo il quale: “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l'integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.
Peraltro, come già precisato, la Corte di Cassazione ha precisato che la violenza psicologica sul posto di lavoro è da considerarsi alla stregua di una discriminazione (con tutte le conseguenze anche in ordine al riparto degli oneri probatori e al regime delle presunzioni), e che il datore di lavoro ha l'obbligo di intervenire tempestivamente, non solo nel caso di molestie sessuali, ma anche quando i comportamenti risultino offensivi, intimidatori o degradanti (Cass. 15 novembre 2016, n. 23286; nello stesso senso, si veda Corte d'Appello di Firenze 17 gennaio 2020, n. 21).
Quanto al concetto di molestie, la giurisprudenza tende a ricomprendervi tutti “…quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”; per aversi una molestia, dunque, è sufficiente il carattere indesiderato della condotta ostile connessa al fattore sessuale, a nulla rilevando il fatto che, a quei comportamenti, conseguano (o meno) delle “effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale” (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295).
Nella stessa direzione si è espressa anche la giurisprudenza di merito: ad esempio, il Tribunale di Firenze, nel pronunciarsi sul caso di una lavoratrice dimessasi per giusta causa in conseguenza di ripetute molestie sessuali subite da parte del padre della rappresentante legale dell'azienda presso cui lavorava, ha condannato la società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico subito dalla vittima per la mancata adozione di iniziative di prevenzione e repressione (Tribunale di Firenze, 20 aprile 2016).
Conclusioni e indicazioni per i datori di lavoro
Tornando al caso in esame è opportuno sottolineare che, pur non entrando troppo nel merito della vicenda specifica (il ricorso del lavoratore, infatti, è stato dichiarato inammissibile), la sentenza n. 6345 del 2024 si inserisce in un più ampio percorso di valorizzazione della tutela della dignità e dell'uguaglianza di genere nei luoghi di lavoro.
Il messaggio, infatti, è molto chiarito: ai nostri tempi le condotte lesive della dignità personale non possono più essere tollerate e il datore di lavoro ha il dovere di intervenire in maniera incisiva per garantire un ambiente lavorativo sicuro e rispettoso dei diritti fondamentali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Un ruolo cruciale, in questo senso, può e deve essere svolto anche dalle misure di contrasto alle molestie e alla violenza di genere che possono introdotte a livello aziendale, tramite l'adozione di adeguate politiche di D&I; questo passaggio potrà essere implementato anche prendendo spunto dai recenti accordi di rinnovo dei CCNL (es. CCNL Industria Alimentare, CCNL Multiservizi, CCNL Metalmeccanici Industria), attraverso i quali, come noto, sono stati introdotti strumenti specifici, come l'istituzione di sportelli di ascolto, la concessione di permessi retribuiti per le vittime di violenza e l'introduzione di procedure di segnalazione e gestione delle molestie nei luoghi di lavoro.
L'analisi della giurisprudenza, in altri termini, ci insegna che l'adozione di politiche D&I non costituisce soltanto una buona prassi aziendale, ma anche un obbligo giuridico che tende sempre più a radicarsi nella cornice normativa nazionale e europea e che, se non correttamente attuato, può esporre i datori di lavoro ad importanti conseguenze non solo sul piano reputazionale ma anche dal lato risarcitorio.
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