venerdì 03/01/2025 • 06:00
Il Collegato Lavoro ha introdotto una nuova causale di cessazione del rapporto per dimissioni per fatti concludenti, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore oltre i termini del CCNL o per più di 15 giorni. Una norma pensata più per prevenire abusi piuttosto che per semplificare la gestione dei rapporti di lavoro.
Quella relativa alle dimissioni tacite è sicuramente una delle disposizioni più discusse della Legge 13 dicembre 2024 n. 203, meglio nota come Collegato Lavoro.
Di questa disposizione, si è detto di tutto e il contrario di tutto, ragion per cui corre l'obbligo di analizzarla scandagliandone a fondo il tenore letterale.
Ad essere modificato è l'art. 26 D.Lgs. 151/2015, in cui, dopo il comma 7, viene inserito un nuovo comma 7-bis, ove si prevede che “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
Il presupposto di applicazione della norma: l'assenza ingiustificata dal lavoro oltre un certo termine
La norma si applica nel caso in cui il lavoratore si assenti ingiustificatamente dal lavoro “oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro” o, in mancanza di previsione contrattuale, per più di 15 giorni. Il legislatore non lo dice espressamente, ma si deve presumere che la norma, con riguardo al termine contrattuale, intenda fare riferimento alle tipizzazioni disciplinari dei CCNL, che solitamente stabiliscono una soglia massima di tollerabilità dell'assenza priva di giustificazioni (si norma pari a 3, 4 o 5 giorni consecutivi, ma non sono escluse previsioni di diversa natura), superata la quale il datore di lavoro viene autorizzato a recedere dal rapporto, molto spesso anche senza preavviso.
Più complesso è invece il rimando al concetto di ingiustificatezza dell'assenza, che risente inevitabilmente delle previsioni dei CCNL applicabili nonché, più in generale, delle visioni non sempre uniformi riscontrabili a livello giurisprudenziale. Ad esempio, a fronte di alcune sentenze che affermano in modo piuttosto netto che la ritardata produzione del giustificativo non può valere a rendere legittima l'assenza (si veda Cass. 25226/2016, che ha confermato la legittimità di un licenziamento comminato ad un dipendente che, pur avendo ottenuto tempestivamente il certificato medico, aveva tardato ad inviarlo al proprio datore di lavoro o comunque non aveva verificato che quest'ultimo lo avesse ricevuto nei tempi di legge), se ne riscontrano altre che tendono a trattare con meno rigore l'eventuale negligenza del lavoratore nella produzione del giustificativo (Cass. 33134/2022; Cass. 18858/2016; Cass. 17335/2016), ammettendo addirittura la possibilità di giustificare anche ex post lo stato di malattia (Cass. 106/2013).
Insomma, se il calcolo della soglia massima di tolleranza dell'assenza può dirsi abbastanza semplice, dipendendo più o meno da un conteggio puramente aritmetico, lo stesso non può dirsi per quel che riguarda la giustificatezza (o meno) dell'assenza, dipendendo quest'ultimo passaggio sia dalle diverse previsioni del CCNL (ve ne sono alcuni, ad esempio, che considerano assente ingiustificato anche il lavoratore che trasmessa in ritardo il certificato medico), sia dalle diverse sensibilità interpretative dei Giudici.
Le dimissioni tacite e la deroga all'art. 26 D.Lgs. 151/2015
Quel che è certo, ad ogni modo, è che in presenza dei presupposti di legge, il rapporto di lavoro si considera risolto per dimissioni tacite del lavoratore (“Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore”). Si verifica pertanto una deroga al procedimento di “convalida” previsto dall'art. 26 del D.Lgs. 151/2015, che, come noto, subordina l'efficacia delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali alla compilazione di “appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente”, con possibilità di revoca entro 7 giorni dalla loro trasmissione.
Nel caso delle dimissioni tacite introdotte dal Collegato Lavoro, questa procedura non trova applicazione, e con essa viene meno anche la facoltà di revoca. Tuttavia, resta salva la possibilità di “invalidare” le dimissioni, se il lavoratore dimostra di essersi trovato nell'impossibilità di comunicare il motivo dell'assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro. Così come restano salvi gli eventuali controlli dell'Ispettorato del Lavoro, al quale deve essere obbligatoriamente trasmessa la comunicazione di cessazione del rapporto.
Alla ricerca della vera “ratio” dell'istituto: una norma anti-abusi?
Come detto, il nuovo comma 7-bis prevede che, quando l'assenza si protrae oltre la soglia di tolleranza fissata dal CCNL o dalla legge, il datore di lavoro “…ne dà comunicazione alla sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima”.
Ma come deve essere qualificato l'atto con cui il datore di lavoro prende atto dell'assenza ingiustificata del dipendente (e la comunica all'Ispettorato)?
Non mi riferisco ovviamente ai casi in cui il datore di lavoro, per sua scelta insindacabile, decida di tollerare l'assenza del dipendente (e di non considerare dunque risolto il rapporto) anche oltre il termine massimo previsto dalla legge o dal CCNL, quanto, piuttosto, ai casi in cui il datore, in presenza dei requisiti previsti dalla nuova disposizione di legge, anziché considerare risolto il rapporto per dimissioni tacite del lavoratore, provveda a licenziarlo per assenza ingiustificata (esattamente come avveniva prima della novella legislativa), garantendogli così l'accesso all'indennità NASPI.
In casi come questi, al contrario di quanto avvenuto sino ad oggi, l'INPS potrebbe agevolmente far leva sul nuovo comma 7-bis dell'art. 26, D.Lgs. 151/2015 e considerare risolto il rapporto di lavoro a seguito delle dimissioni tacite configurabili per effetto della prolungata assenza del lavoratore, anziché per licenziamento. La norma, in altri termini, potrebbe aprire le porte ad una sorta di disconoscimento del recesso datoriale, potenzialmente idoneo a precludere la concessione dell'indennità di disoccupazione, come noto, non spettante nei casi in cui lo stato di disoccupazione non sia involontario ma dipenda da una scelta deliberata e consapevole del lavoratore (a favore di questa soluzione si era espresso, ben prima della novella legislativa, il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 20 del 27 maggio 2022).
Siamo dunque, chiaramente, di fronte ad una norma pensata più per prevenire possibili abusi (e per tutelare le casse dello Stato), piuttosto che per semplificare la gestione dei rapporti di lavoro.
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- Avvocato - Studio ArlatiGhislandiRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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