Il Decreto salva infrazioni, DL 131/2024, pubblicato nella GU n. 217 del 16 settembre 2024, interviene sulla disciplina dei contratti a tempo determinato ed elimina i limiti della indennità onnicomprensiva ad oggi riconosciuta dalla legge, così intendendo dare seguito alle indicazioni della procedura di infrazione con la quale l'Unione europea ha invitato l'Italia a recuperare il corretto recepimento della direttiva 1999/70/CE. La Commissione non ha ritenuto le norme che regolano le conseguenze della trasformazione del rapporto a tempo determinato, efficaci ai fini della prevenzione e della sufficienza della sanzione, in caso di utilizzo abusivo dei contratti a tempo determinato (INFR n. 2014/4231). Il testo rimette integralmente al giudice il potere di determinare la misura della indennità da riconoscere ai lavoratori.
La fattispecie
La fattispecie concreta oggetto di attenzione della Commissione europea è rappresentata dall'abuso dell'utilizzo dei contratti a termine e dalla misura del ristoro riconosciuto ai lavoratori coinvolti. La norma attualmente in vigore, per il caso di specie, alla trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, unisce la condanna per il datore di lavoro ad una indennità onnicomprensiva nella misura da un minimo di 2,5 fino ad una massimo di 12 mensilità, per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (art. 28, co. 2, d.lgs. n. 81/2015). La Commissione europea, con la procedura di infrazione n. 2014/4231, ha ritenuto non corretta tale opzione in relazione al recepimento della direttiva 1999/70/Ce del Consiglio. In particolare, la determinazione di una misura minima e, soprattutto, di una massima, dell'indennizzo riconoscibile al lavoratore, è stata considerata insufficiente in sé quale sanzione per il comportamento dalla quale deriva, e conseguentemente priva di adeguato effetto deterrente-dissuasivo nei confronti delle pratiche di abuso del ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato.
I dubbi di costituzionalità e l'avallo della Corte costituzionale
Non è superfluo ricordare che sin dalla introduzione del limite all'indennizzo dei lavoratori coinvolti nell'utilizzo reiterato o comunque abusivo dei contratti a termine, sono stati sollevati dubbi circa la conformità di tali limiti alla Costituzione, proprio per ragioni simili a quelle prospettate dalla Commissione. Era stata criticata la misura, ritenuta irragionevolmente riduttiva del risarcimento integrale e perciò sproporzionata per difetto rispetto all'ammontare del danno effettivamente sofferto dal lavoratore. A quelle eccezioni la Corte costituzionale (sentenza 11 novembre 2011, n. 303), aveva opposto, rigettandole, che le nuove norme avevano introdotto un criterio di liquidazione del danno più agevole, certo e di applicazione omogenea, e non risultava perciò irragionevole, in quanto non si limitavano a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicuravano a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, andando la prevista indennità ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. La norma dunque, secondo la Corte costituzionale, risulta, nell'insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta delle prestazioni lavorative né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale, periodo che trascorre a prescindere da sue responsabilità e paga il dazio dei tempi della giustizia.
I rilievi della Commissione Ue
A prescindere dalle valutazioni di conformità al dettato costituzionale, la norma ha comunque suscitato l'intervento della Commissione Ue ed ha dato la stura ad una procedura di infrazione (n. 2014/4231), che ha ritenuto inadeguato l'impianto normativo in argomento, considerando non soddisfacente la misura indennitaria regolata dall'art. 28 del d.lgs. 81/2015, che non sarebbe dissuasiva degli abusi del ricorso ai contratti a tempo determinato, né garantirebbe un ristoro sufficiente ai lavoratori coinvolti. La decisione della Commissione giunge a valle di una procedura d'infrazione nell'ambito della quale sono pure state fornite spiegazioni delle ragioni delle norme interne, tuttavia evidentemente non ritenute sufficienti dall'organo dell'Unione.
Il Decreto salva infrazioni
Sulla scorta di tali indicazioni, con il DL 131/2024 (Decreto salva infrazioni) si è deciso di intervenire per dare seguito alle prescrizioni della Commissione Ue, non ulteriormente procrastinabili, apportando due modifiche radicali all'art. 28 D.Lgs. 81/2015. È abrogato il terzo comma, che dispone(va) la riduzione alla metà della soglia massima dell'indennizzo, in presenza di contratti collettivi che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie. Al secondo comma, è inserita “la possibilità per il giudice di stabilire l'indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”.
Emerge un nuovo quadro, nel quale scompare qualsiasi riconoscimento per l'azione positiva della contrattazione collettiva e, soprattutto, con l'inciso che riconosce al giudice la possibilità di superare la misura massima dell'indennità prevista dalla legge, si abbandonano i canoni di certezza e omogeneità della determinazione dell'indennizzo perseguiti con la norma in via di modifica. Viene introdotta pertanto una possibilità di risarcimento pressoché illimitata nella sua misura, e comunque non determinata né determinabile, ove accompagnata dalla prova del danno da parte del lavoratore. Si tratta di due effetti che implicano obiettivamente una direzione contraria ai canoni di certezza e celerità richiesti invece in tali circostanze. Da un lato, il giudice è chiamato ad una valutazione avulsa da indicazioni precise per la sua determinazione, potendo giungere ad irrogare una sanzione anche particolarmente onerosa, in ragione del tempo trascorso (quello relativo al contenzioso), a prescindere dalla eventuale responsabilità delle parti. Dall'altro, l'onere della prova del quale è fatto carico il lavoratore, non potrà che costituire ulteriore elemento di contenzioso in ordine all'effettività del suo assolvimento.
Alternative possibili
La necessità del provvedimento adottato non è discutibile, perché conseguente alle prescrizioni contenute dalla procedura di infrazione cui è necessario dare attuazione. Più di una perplessità è però suscitata dalle modalità con le quali si è inteso dare seguito alle indicazioni della Commissione Ue sul tema. È pur vero che le motivazioni rese dalla Corte costituzionale con la sentenza qui citata (n. 303/2011), non soltanto recedono, tecnicamente, rispetto alle decisioni della Commissione, ma in ogni caso hanno un'efficacia limitata al caso specifico che ha occupato la Corte, trattandosi di provvedimento di rigetto. È altrettanto vero però che i princìpi affermati in quella sede dalla Consulta ben possono essere tenuti nella dovuta considerazione dovendo ragionare sulle soluzioni da adottare per dare seguito alle indicazioni della Commissione, e prospettare una alternativa alla soluzione adottata, che riporta l'intero ambito in un clima di incertezza che non può condividersi.
Va ricordato infatti che il tetto massimo dell'indennizzo previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81/2015, da un lato ha un'applicazione di fatto automatica in ogni occasione di conversione, esonerando il lavoratore da qualsiasi onere (e difficoltà) di prova del danno subito, garantendogli così l'accesso agevole alla posta risarcitoria. Dall'altro, la forfetizzazione riguarda esclusivamente il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto. In buona sostanza, condivisibilmente, quell'impianto che si sta per abbandonare, mirava a calmierare un ambito temporale, dettato dai tempi della giustizia, non necessariamente patrimonio gestionale esclusivo delle parti, anzi. Inoltre, e tale argomentazione avrebbe potuto essere considerata risolutiva, l'indennità non era (e non è) lo strumento esclusivo di tutela per il caso di abuso del ricorso ai contratti a termine, ma si aggiunge a quella, principale, della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, effettivo momento dissuasivo ed adeguatamente sanzionatorio dell'abuso. Aver riconsegnato al giudice il compito di determinare l'indennità, reintroduce momenti di incertezza ed indeterminatezza nella gestione dei rapporti di lavoro, con poste risarcitorie che possono diventare anche abnormi se paragonati alla durata originaria del rapporto di lavoro, in funzione di un elemento (il lasso di tempo che trascorre per la definizione della controversia) non necessariamente nel dominio delle parti coinvolte.
Auspicando pertanto che, perlomeno, la dimostrazione del maggior danno da parte del lavoratore sia accolta dai giudici con l'obiettivo rigore che la fattispecie richiede, non mancano le speranze che possano essere tentati ulteriori percorsi che, nell'ambito della doverosa adesione alle prescrizioni della Commissione Ue, contemplino la possibilità di recuperare lo spirito e la ratio del modificando art. 28, affinché siano garantiti quegli obiettivi di certezza ed oggettività che non pare opportuno abbandonare, come accadrebbe con un'operazione tranciante della norma in discorso, che si prospetta foriera di criticità già note.
Fonte: DL 16 settembre 2024, n. 131 (GU 16 settembre 2024 n. 217)