sabato 14/10/2023 • 06:00
Anche il CNEL, così come di recente la Cassazione, conferma il primato della Costituzione nella individuazione del salario adeguato a garantire l’esistenza dignitosa del lavoratore e riconosce il ruolo fondamentale della contrattazione collettiva. L’eventuale salario minimo legale non rappresenterebbe la risposta adeguata a sconfiggere il lavoro povero.
Il documento del CNEL
In esito all'incarico ricevuto dalla Presidente del Consiglio dei Ministri l'11 agosto 2023, con la richiesta di un documento di osservazioni e proposte in materia di salario minimo in vista della prossima legge di bilancio, la Commissione appositamente costituita presso il CNEL ha presentato il proprio elaborato suddiviso in due parti, espressione del metodo operativo adottato. Una prima, destinata all'inquadramento e all'analisi del problema, ed una seconda, contenente le conclusioni e le proposte operative, presentate con una conferenza stampa presso la sede del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro.
Fondamentale la premessa del documento, che mette immediatamente in luce l'estrema complessità del tema, rappresentato dalla adeguatezza della retribuzione, e dalla necessità che questa, conformemente a quanto previsto dalla Costituzione con l'art. 36, si riveli, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche sufficiente, per consentire al lavoratore ed alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Un quadro di valori quindi, e di garanzie da apprestare, che, come è stato giustamente osservato, difficilmente può essere risolto dalla semplice individuazione di una soglia numerica per il salario, una quota minima, che rappresenterebbe un limite si insuperabile, ma verso il basso, con un approccio pertanto difensivo e per nulla ambizioso, privo di quegli scopi promozionali della persona che la Costituzione pone tra i valori fondamentali dell'ordinamento e persegue anche attraverso la tutela del lavoro.
Il contesto comunitario
Nel quadro delle considerazioni contenute dal documento della Commissione, non potevano mancare le considerazioni in riferimento al contesto comunitario in materia, soprattutto perché la riaccensione del dibattito in ordine al salario minimo, e alla opportunità di determinarlo per legge, è evidentemente dovuta alla Direttiva UE 2022/2041, dalla quale i promotori del salario minimo legale hanno fatto discendere (con una operazione deduttiva oggettivamente erronea) la necessità che anche il nostro Paese provvedesse al contrasto del lavoro povero fissando con una norma il quantum della retribuzione fissa, sotto il quale non sarebbe possibile scendere.
In realtà, come è correttamente osservato dal documento del CNEL, il significato e le indicazioni della Direttiva non conducono affatto a tali conclusioni, anzi, appaiono più che altro un momento di promozione della contrattazione collettiva. Come ricordato dal documento, infatti, la direttiva europea non impone agli Stati membri alcun obbligo di fissare per legge il salario minimo adeguato e neppure di stabilire un meccanismo vincolante per l'efficacia generalizzata dei contratti collettivi. La direttiva è al contrario estremamente chiara nel segnalare, rispetto all'obiettivo di promuovere un sostanziale “miglioramento dell'accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo” (art. 1), una netta preferenza di fondo per la soluzione contrattuale rispetto a quella legislativa.
A parere della Commissione e del Consiglio “il buon funzionamento della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari è uno strumento importante attraverso il quale garantire che i lavoratori siano tutelati da salari minimi adeguati che garantiscano quindi un tenore di vita dignitoso (...). Una contrattazione collettiva solida e ben funzionante, unita a un'elevata copertura dei contratti collettivi settoriali o intersettoriali, rafforza l'adeguatezza e la copertura dei salari minimi” (considerando 22 della direttiva).
Le considerazioni del CNEL
Premesso il rilievo dell'effettiva esigenza di contrastare il lavoro povero, e considerata l'insufficienza a tali fini di una predeterminazione, rigida, di un valore, astratto, numericamente individuato dalla legge, il documento del CNEL ribadisce a tali fini la centralità della contrattazione collettiva nella fissazione dei trattamenti salariali adeguati. A questo scopo, preso atto dell'attuale insufficienza del pur evoluto sistema di relazioni industriali, il documento segnala l'opportunità e l'urgenza di un piano di azione nazionale affidato al CNEL per la valorizzazione e il sostegno della contrattazione collettiva “anche in termini di contributo al ripensamento delle misure pubbliche di incentivazione economica a imprese e lavoro”, nell'ambito di un più generale impegno “per una riflessione istituzionale sulla promozione della contrattazione collettiva, sulla rappresentanza, sui perimetri contrattuali e sui sistemi qualificati di bilateralità”. È evidente la comprensione dell'attualità del lavoro povero e dell'urgenza di rimediarvi, che si traduce in un invito alla solerzia per gli attori della contrattazione collettiva, al fine di riappropriarsi del proprio ambito operativo di elezione, innanzi tutto su un tema fondamentale come quello della garanzia di un lavoro dignitoso, nel rispetto del dettato dell'art. 36 Cost.
Al fine del raggiungimento di tali obiettivi, viene posta al centro la necessità di regolare in maniera efficace la produttività e renderla parametro dei salari, individuando al contempo quelle che appaiono essere le vere cause del lavoro povero, che esulano dalla semplicistica individuazione di un quantum minimo di base. Così l'attenzione, e la necessità degli interventi, viene posta sulle tipologie di lavoratori (parasubordinati, temporanei, lavoratori senza contratto, lavoratori con mansioni di discontinue o di semplice attesa o custodia, lavoratori a tempo parziale involontario); settori contrattualmente deboli, aree critiche, vigilanza e controlli; contratti “pirata”, dumping contrattuale, ritardi nei rinnovi contrattuali; adempimenti formali imposti dalla direttiva europea sui salari adeguati e revisione della busta paga. Tutto ciò a riprova della premessa complessità del problema del lavoro povero, che certamente è un problema da affrontare in via prioritaria, ma che con altrettanta certezza non può superficialmente essere ridotto alla individuazione di un numero che la legge rende obbligatorio e che, come tale, rappresenti la panacea di tutte queste problematiche.
Anzi, in molte delle fattispecie riportate dal documento del CNEL, le condizioni di povertà prescindono pure da un salario formalmente sopra la soglia che si vorrebbe individuare per legge come minima (emblematici i casi delle prestazioni discontinue o, ancora, peggio, del lavoro part-time involontario). Pertanto, è alla contrattazione collettiva che è rivolta tale richiesta di (ri)discesa in campo, affinché reclami e riassolva al proprio ruolo centrale di equilibrio e promozione di queste dinamiche. Anche sotto l'egida del CNEL, che in virtù dell'art. 99 Cost. e del ruolo che perciò gli è riconosciuto, coglie l'occasione del compito affidato dalla Presidente del Consiglio dei Ministri per ribadire la propria funzione e candidarsi a catalizzatore di tale processo.
Le assonanze con la giurisprudenza di legittimità
Come premesso, quello del salario minimo è senz'altro il tema di attualità del diritto del lavoro. Perlomeno quello tra i più discussi degli ultimi mesi, anche per effetto della relativa imminenza della necessità di attuare la Direttiva UE 2022/2041 in materia. Come spesso accade, le posizioni sono state di fatto manichee, tra chi ha ritenuto, e ritiene tutt'ora, l'impellenza della emanazione di una legge che fissi un salario minimo, e chi invece, condividendo le indicazioni piuttosto articolate della Direttiva, opera riflessioni di più ampio respiro sui diversi strumenti ed interventi da adottare per il contrasto al lavoro povero.
Come già ricordato, la Direttiva UE 2022/2041 in realtà non propende per soluzioni particolari, men che meno per il salario minimo legale, quanto piuttosto rappresenta un monito concreto per i paesi membri per realizzare condizioni di lavoro dignitose, anche attraverso l'adeguatezza dei salari, da verificare però in conformità al proprio diritto interno e, non ultima, attraverso la contrattazione collettiva che, anzi, dalla lettura della stessa Direttiva, appare la soluzione preferibile rispetto a quella normativa, declinata oggettivamente come ipotesi residuale di soccorso.
In questo quadro non sfugge all'attualità il diritto vivente, così che alcune recenti pronunce della Corte di cassazione (Cass. 2 ottobre 2023 n. 27711 e Cass. 10 ottobre 2023 n. 28323), hanno concorso in maniera importante ad alimentare il dibattito, pur affermando, nel loro rigore e nella loro completezza, quella che probabilmente, in altri tempi, sarebbe apparsa quasi come una banalità: il primato dell'art. 36 della Costituzione nella individuazione dei criteri per l'adeguatezza del salario, che consente, a determinare condizioni, di pretermettere pure la determinazione della contrattazione collettiva, finanche quando questa sia dimostrata accompagnata dalla rappresentatività maggioritaria.
Secondo la Cassazione, infatti, va ricordato che l'art. 36, c. 1, Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità, dell'attività prestata»; mentre quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa». In altre parole, l'uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l'altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto». Il giudice, pertanto, non può sottrarsi a nessuna delle due valutazioni che, seppur integrate, costituiscono le direttrici sulla cui base deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.
La soglia di povertà
Per quanto concerne il valore soglia di povertà assoluta, è noto che esso viene calcolato ogni anno dall'ISTAT relativamente ad un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia; mentre i concetti di sufficienza e di proporzionalità mirano a garantire al lavoratore una vita non solo non povera ma persino dignitosa; orientando il trattamento economico non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n.2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n.28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali").
Pertanto, l'obiettivo generale non può limitarsi alla individuazione di una soglia minima invalicabile. Esso non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del c.d. salario minimo costituzionale, che deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l'altro profilo della proporzionalità.
Nel perseguire tali fini, coerentemente con il disegno costituzionale, al giudice è riconosciuta “una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell'art.36 Cost”.
Opportunamente la sentenza n. 27711/2023 ribadisce il monito formulato dalla stessa giurisprudenza ed invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione «giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali».
Il giudice è chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell'ambito di ogni singolo rapporto di cui è chiamato a conoscere, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello generale nella normativa costituzionale; ed in caso di violazione ripristinare la regola violata dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale, in applicazione delle regole civilistiche dell'art. 2099, c. 2 e dell'art. 1419, c. 1, c.c.. Il giudice deve sempre approcciarsi alla contrattazione collettiva "con grande prudenza e rispetto", attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale, un principio garantito dalla Costituzione e anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cass. sent. nn. 27711/2023 e 28323/2023).
Anche per la giurisprudenza di legittimità quindi, il ruolo centrale in materia è quello svolto dalla contrattazione collettiva, che se ne deve (ri)appropriare governando efficacemente il tema secondo il dettato costituzionale. In tale assetto l'intervento dei giudici, laddove necessario, è comunque esogeno, per recuperare un equilibrio ai sensi dell'art. 36 della Costituzione, che rimane il dato di riferimento essenziale cui tutti devono rivolgersi, tanto più il giudice, al quale, nell'eventualità, è più volte raccomandato dalla stessa giurisprudenza di legittimità che il suo intervento sia improntato innanzi tutto alla prudenza.
La centralità della contrattazione collettiva, e l'altare dell'art. 36 Cost., davanti ai cui princìpi ogni altro intervento recede, è espressamente confermato dalle recenti sentenze citate, anche rispetto alla eventualità della presenza di un dato normativo che individui in qualche modo un trattamento retributivo, ritiene infatti la Corte “evidente come l'aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell'art.36 Cost. di cui si discorre in questo giudizio possa prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione; e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa (come ad es. nella Legge 142/2001 e nella Legge 31/2008); non potendosi mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della stessa possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale”.
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