mercoledì 30/08/2023 • 06:00
La tentazione di un salario minimo legale è oggetto di un intenso dibattito politico. Tuttavia, potrebbe non essere la soluzione al vero problema, la perdita di potere di acquisto delle retribuzioni. Sarebbe necessario da un lato incentivare le politiche su cuneo fiscale, premi di produttività e welfare e dall'altro dare un impulso alla contrattazione collettiva di qualità.
La problematica della giusta retribuzione in Italia
In base all'art. 36 della Costituzione, “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
Il primo comma stabilisce un criterio per individuare la “giusta retribuzione”; il secondo comma fissa una riserva di legge, mentre il terzo comma stabilisce la indisponibilità e quindi la irrinunciabilità del risposo settimanale e delle ferie, anche in relazione ad una chiara tutela della salute del lavoratore.
In particolare, il primo comma enuclea ad un tempo sia il principio della proporzionalità sia quello della sufficienza della retribuzione. Da un lato i padri costituenti radicano un criterio di gradualità retributiva nell'ambito del sinallagma contrattuale, dall'altro lato riconoscono la funzione sociale della retribuzione per condurre una vita dignitosa.
La norma dell'art. 36 Cost. citata va considerata immediatamente precettiva, per cui deriva la invalidità di quell'accordo privato in cui non sia indicata la giusta retribuzione.
La fonte primaria della determinazione della retribuzione viene individuata nella contrattazione collettiva, che ne fissa gli importi minimi in un contesto di corrispettività.
Secondo la S.C. “nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal contratto collettivo acquista, pur solo in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza” (cfr. Cass. n. 25889/2008). Va ulteriormente sottolineato che la stessa Corte di Cassazione ha espresso l'orientamento secondo cui “alla stregua dell'art. 36, c. 1, Cost. il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Di conseguenza, ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell'art. 1419, c. 2, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell'art. 36, con valutazione discrezionale. Ove, però, la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” (cfr. Cass. n. 2245/2006).
Giova, al riguardo, ricordare che in base all'art. 2099, c. 2, c.c., “in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”. Tale norma rappresenta una chiara deroga all'art. 1418, c. 2, c.c. in forza del quale “producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346”.
Certamente, l'orientamento prevalente in giurisprudenza individua nella contrattazione collettiva di categoria la fonte della retribuzione minima legale ai sensi dell'art. 36 Cost.
Infatti, secondo la S.C. (Cass. 20 gennaio 2021 n. 944) “in tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice, per i rapporti non tutelati da contratto collettivo, può utilizzare, quale parametro di raffronto, la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell'attività svolta dal datore di lavoro ovvero, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe, dovendo considerare le sole componenti integranti il cd. minimo costituzionale - anche con riguardo alle imprese di non rilevanti dimensioni -, con esclusione delle voci retributive legate all'autonomia contrattuale, come ad esempio i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e la quattordicesima mensilità”.
Alla luce delle esposte considerazioni si deduce che la giurisprudenza abbia di fatto attribuito efficacia erga omnes alla contrattazione collettiva, pur in mancanza della realizzazione del disposto dell'art. 39 Cost.
Verso la contrattazione collettiva di qualità
La contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa, così come individuata dall'art. 51 D.Lgs. 81/2015, ad oggi manca ancora di una sua precisa individuazione, non essendo previsto in alcuna norma di legge un criterio definitorio del concetto di “comparativamente più rappresentativo”. Sarebbe, dunque, giunto il tempo storico di colmare il vuoto legislativo sul tema tenendo anche presente che, in virtù del principio della libertà sindacale, non può escludersi a priori la possibilità che possano esistere contratti collettivi non comparativamente più rappresentativi.
Inoltre, sembra corretto domandarsi se la contrattazione collettiva, ritenuta comparativamente più rappresentativa, sia in grado oggi di tutelare le ragioni dei lavoratori, fissando una retribuzione minima sufficiente ai fini dell'art. 36 cost.
L'osservazione nasce dalla presa d'atto che diversi contratti collettivi, tra cui quello della “Vigilanza privata - servizi fiduciari”, certamente non sono idonei a garantire una retribuzione sufficiente.
Nota, al riguardo, la sentenza n. 1128/2019 del Tribunale di Torino, secondo cui: “la consistenza dello scostamento tra la retribuzione erogata al ricorrente e quella che egli avrebbe percepito per lo svolgimento delle stesse mansioni, con lo stesso orario di lavoro, in forza degli altri contratti collettivi applicabili appare senza dubbio idonea a far cadere la presunzione di conformità all'art. 36 di cui la prima gode in ragione del fatto di essere corrispondente a quella prevista dall'articolo 23 della sezione Servizi Fiduciari del CCNL Vigilanza, la quale è stata a sua volta concordata da organizzazioni sindacali che possono certamente qualificarsi come maggiormente rappresentative. È certamente tale da mettere in seria crisi la presunzione di proporzionalità il fatto che, nello stesso periodo e con riferimento alle stesse mansioni e ad un identico orario di lavoro, ben tre altri contratti collettivi dotati della stessa rappresentatività prevedessero retribuzioni superiori, in media, di oltre un quarto”.
Quindi, la definizione di comparativamente più rappresentativo, quand'anche venisse codificata per legge, risulterebbe superata dalle esigenze sostanziali di individuazione di una giusta retribuzione, esigenze che richiederebbero un ulteriore o diverso requisito, che è quello della “qualità della contrattazione”. Infatti, la presunzione di proporzionalità della retribuzione nell'ambito della attuale contrattazione collettiva non è un dogma di certezza “legale”, ma una presunzione semplice, che lascia al giudice la possibilità sempre di verificarne la conformità rispetto all'art. 36 Cost., che, giova ribadirlo, non ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico una riserva di legge nella individuazione della giusta retribuzione.
La sfida del futuro sindacale è dunque rappresentata dalla prospettiva di rivedere le modalità della contrattazione, rimodulando i livelli della contrattazione medesima verso un diverso concetto di contrattazione “di qualità”. L'attuale sistema è caratterizzato, sicuramente, da una eccessiva frammentazione di contratti collettivi di settore, con conseguente differente trattamento sia retributivo sia normativo rispetto a mansioni sostanzialmente coincidenti.
Sul salario minimo
La tentazione di un salario minimo legale per risolvere la questione della giusta retribuzione è oggetto di un attuale ed intenso dibattito politico, ma rievoca suggestioni passate.
Va, sul punto, ricordato che già il DDL n. 183 del 2014 (si veda art. 1, comma 7, lett. G) stabiliva “l'introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Come noto, tale previsione non trovò concretizzazione.
Prima di analizzare le criticità in merito all'introduzione di un salario minimo legale, in via preliminare, sembra opportuno riprendere alcune considerazioni, già ampiamente articolate dalla Fondazioni Studi (Salario minimo in Italia: elementi per una valutazione, 13 luglio 2023) di seguito riportate: “Il dibattito sviluppatosi a seguito della Direttiva europea (la Dir. UE 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022, relativa a salari minimi adeguati nell'UE, si inserisce nell'ambito delle iniziative previste dal “Pilastro europeo dei diritti sociali”, intercettando una domanda crescente di tutela e protezione dei salari, accresciuta dalla pandemia e dalla più recente crisi internazionale) sull'individuazione di salari minimi equi e dignitosi si inserisce in un contesto, come quello italiano, da decenni caratterizzato da bassa crescita delle retribuzioni, della produttività e del PIL.
In più, negli ultimi due anni l'aumento dell'inflazione ha eroso significativamente il potere di acquisto dei salari, determinando l'esigenza di individuare strumenti che consentano un loro adeguamento al fine di preservare i redditi reali dei lavoratori e delle loro famiglie.
Alle ipotesi di intervento attualmente al vaglio della politica l'approvazione della direttiva scioglie ogni dubbio circolato in merito alla sua corretta applicazione, ricordando come la stessa non indica un valore minimo di salario applicabile a tutti i lavoratori né tantomeno obbliga gli Stati membri a definire una legge sul salario minimo legale, ma privilegia il criterio della contrattazione.
Qualora uno Stato sia al di sotto della quota del 80% dei lavoratori coperti da contrattazione collettiva, questo dovrà definire un piano di azione per promuovere la contrattazione o per arrivare alla definizione di un salario minimo. Sono indicati poi una serie di elementi da migliorare per aumentare le tutele sui salari: si va dai controlli da parte degli ispettorati del lavoro a informazioni facilmente accessibili sulla tutela garantita dai salari minimi.
In questo quadro, l'Italia presenta un tasso di copertura contrattuale superiore al livello minimo previsto dalla direttiva. Escludendo il settore agricolo e domestico, per cui non sono disponibili informazioni, secondo il CNEL sarebbero circa 12,8 milioni i lavoratori dipendenti di aziende private coperti da contratti collettivi, per una incidenza sul totale degli occupati attorno al 96,5%”.
Conclusioni
Orbene, non vi è alcun dubbio sul fatto che l'attuale difficile convergenza economica imponga un cambiamento di rotta nella politica di individuazione del giusto salario ai sensi dell'art. 36 Cost. Ne deriva che ogni iniziativa volta a valorizzare la dignità del lavoro, ponendo un limite minimo ai trattamenti retributivi, costituendo un confine di legittimità, vada valutata positivamente. La proposta di legge, recentemente predisposta dalle opposizioni, prevede una soglia minima oraria di 9 euro lordi per tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Sul punto va detto che tale fissazione empirica dell'importo minimo salariale pari a 9 euro lordi, sembra non rispettare i criteri, richiesti dalla Direttiva UE 2041/2022, nella determinazione del salario minimo:
La questione risulta molto delicata, atteso che una individuazione dell'importo retributivo minimo eccessivamente elevata potrebbe favorire fenomeni di immersione, che, invero, devono essere oggetto di assoluto contrasto da parte di tutte le componenti lavoristiche sia pubbliche sia private oltre che dalle autorità ispettive.
Peraltro, l'eccessivo aumento dell'importo minimo orario potrebbe determinare un aumento del costo del lavoro non programmato e adeguato rispetto alla condizione di alcuni settori merceologici.
Ebbene, al di là della empiricità caratterizzante la individuazione di tale soglia minima di 9 euro lordi e delle ulteriori considerazioni sopra svolte, va detto che la introduzione di una normativa impositiva di un limite minimo di salario non sarebbe in contrasto con l'art. 36 della Costituzione, che, si ribadisce, non introduce alcuna riserva di legge nella individuazione della retribuzione minima a favore della contrattazione collettiva.
Di certo, però, l'introduzione di un salario minimo comporterebbe conseguenze immediate:
Inoltre, la fissazione di un minimo salariale ex lege potrebbe non essere la soluzione al vero problema attuale e cioè la perdita di potere di acquisto delle retribuzioni.
Sul punto si ritiene che, al fine di recuperare il valore dei salari, sarebbe necessarie da un lato incentivare le politiche governative che incidono sul c.d. “cuneo fiscale” e su quell'area di detassazione collegata alla contrattazione collettiva, promuovendo l'erogazione di premi di produttività e del welfare aziendale, dall'altro lato bisognerebbe dare un forte impulso alla contrattazione comparativamente più rappresentativa “di qualità” , come delineata al paragrafo 2, per rispondere agli effettivi bisogni dei lavoratori nella individuazione degli istituti contrattuali più idonei.
Non si può dimenticare che in una economia virtuosa il livello minimo salariale deve seguire l'andamento della produttività in un processo di continua collaborazione tra le parti sociali. Il ruolo dello Stato non può essere tanto assorbente da privare le parti sociali medesime di quell'ambito di contrattazione più rilevante e cioè la ricerca della giusta retribuzione ex art. 36 Cost.
La fissazione ex lege del salario minimo rappresenterebbe una invasione “pubblica” di campo in un'area in cui solo la contrattazione collettiva di qualità può intercettare la giusta soluzione, dovendo rimanere il compito dello Stato circoscritto nella formulazione di una legislazione idonea a migliorare il potere di acquisto dei salari.
Spetterà quindi, alle parti sociali, svolgere il proprio ruolo e adeguare i livelli retributivi di quei contratti collettivi notoriamente non decorosi e non rispettosi della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro richiesta dall'art. 36 Cost.
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