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venerdì 30/06/2023 • 06:00

Speciali Approvato il testo alla Camera

Decreto Lavoro è legge: più facili i rinnovi dei contratti a termine

Le legge di conversione del Decreto Lavoro, approvata definitivamente dalla Camera, ha nuovamente modificato la disciplina delle causali, rendendo assai più facile rinnovare i contratti a termine di durata non superiore a 12 mesi. Quanto al calcolo del periodo acausale, vengono esclusi dal computo i periodi lavorati per contratti stipulati prima del 5 maggio 2023.

di Matteo Motroni - Avvocato, studio Ichino Brugnatelli e associati

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L'iter di conversione in legge del DL 48/2023 (c.d. “Decreto Lavoro”), grazie in particolare agli emendamenti approvati dal Parlamento, ha introdotto alcuni significativi elementi di novità in materia di contratti a termine.

Ricordiamo che l'architettura del Decreto Lavoro era ed è tutt'ora incentrata su un forte potenziamento della contrattazione collettiva cui è stata demandata la individuazione delle causali che possono essere indicate nei contratti di durata compresa tra i 12 e i 24 mesi; ciò nell'ottica di superare le impervie causali introdotte dal c.d. Decreto Dignità, che rendevano possibile il superamento dei dodici mesi (nonché il rinnovo anche se intervenuto nel periodo acausale) solo a fronte di “esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori” o di “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria”. Queste causali si erano dimostrate pressoché impraticabili nel mondo reale, in quanto rendevano sostanzialmente impossibile – a meno di non esporsi a rischi incalcolabili di contenzioso – la stipula di contratti a termine di durata superiore a 12 mesi o il rinnovo di contratti di durata anche inferiore all'anno.

La differenza con il decreto originario

L'impianto originario del decreto, pur ridisegnando le causali, aveva lasciato inalterata la disciplina delle proroghe e dei rinnovi intervenute nei primi dodici mesi (c.d. periodo “acausale”): le proroghe potevano essere disposte (in numero massimo di quattro) anche in assenza di causale, mentre i rinnovi richiedevano sempre l'apposizione di una causale (ricordiamo che, per “proroga”, si intende il protrarsi nel tempo del medesimo contratto attraverso il rinvio concordato del termine di scadenza; per “rinnovo”, invece, si intende la stipula tra le medesime parti di un nuovo contratto, a parità di categoria legale e mansione, stipula che – di regola – può avvenire solo con l'osservanza dei cc.dd. “stop & go”, ovvero a seguito del decorso di un certo periodo di tempo tra un contratto e l'altro).

Il disegno di legge di conversione – decisamente più ispirato a logiche di flessibilità – è intervenuto proprio su questo delicato aspetto, rendendo finalmente possibile il rinnovo anche in assenza di causale (a tal fine il legislatore è intervenuto sia sull'art. 19 co. 4, sia sull'art. 21 co. 01 del D.Lgs. 81/2015).

Ad oggi, dunque, i contratti a termine possono essere prorogati o rinnovati liberamente entro i primi 12 mesi di durata.

Va detto poi che ai rinnovi non risulta applicabile (nemmeno per analogia) l'ulteriore limite previsto dall'art. 21, c. 1, D.Lgs. 81/2015, secondo cui il termine del contratto a tempo determinato “può essere prorogato per un massimo di quattro volte nell'arco di ventiquattro mesi”.

Ne deriva pertanto che i rinnovi – purché contenuti nell'arco massimo di dodici mesi – non saranno assoggettati a limiti numerici di sorta e potranno quindi essere ben più di quattro (anche molti più, a differenza di quanto accade per le proroghe).

Il calcolo dell'arco temporale di 12 mesi a cui rapportare la legittimità dei rinnovi acausali, a parere di chi scrive, non dovrebbe porre particolari dubbi interpretativi.

La nuova formulazione dell'art. 19, co. 4 lascia intendere molto chiaramente che la causale diventa necessaria solo nel caso di superamento della durata complessiva di dodici mesi, da intendersi (ragionevolmente) quale sommatoria dei contratti stipulati tra le medesime parti; la norma in questione infatti recita piuttosto chiaramente che “L'atto scritto contiene, in caso di rinnovo, la specificazione delle esigenze di cui al comma 1 in base alle quali è stipulato; in caso di proroga e di rinnovo dello stesso rapporto tale indicazione è necessaria solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”.

Non sembra invece coerente con la formulazione e con lo spirito della norma una diversa lettura del comma 4 che imponga l'apposizione della causale a tutti i rinnovi che intervengano a più di dodici mesi dalla data di instaurazione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Ragionevolmente, dunque, sarà possibile rinnovare i contratti a termine senza causale anche a diversi anni di distanza dalla data di prima assunzione del dipendente: ed in tal caso, per evitare il meccanismo della conversione del contratto a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato (sempre prevista dall'art. 21, c. 01, secondo periodo del D.Lgs. 81/2015), sarà sufficiente controllare che la sommatoria dei contratti non superi i dodici mesi complessivi.

Una previsione transitoria

Di notevole rilievo è pure la precisazione secondo cui – ai fini del calcolo del nuovo periodo acausale – dovrà tenersi conto “dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”: viene in altri termini introdotta una previsione di natura transitoria (per certi versi simile a quella prevista dall'art. 21 del CCNL per le agenzie di somministrazione), che conduce ad un sostanziale “azzeramento” del contatore ai fini del calcolo della acausalità, escludendo dal computo dei dodici mesi tutti i contratti  stipulati prima del 5 maggio 2023 (è importante precisare che la norma in esame si riferisce ai “contratti stipulati” e non ai periodi lavorati: ad essere esclusi dal computo, dunque, saranno anche i periodi di lavoro successivi al 5 maggio, se riferibili a contratti stipulati prima di tale data).

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