La Cassazione, con un'articolata ed argomentata sentenza, ha risolto l'annoso problema della decorrenza della prescrizione quinquennale per i crediti retributivi dei lavoratori subordinati. La tradizionale distinzione, che seguiva la nettezza della differenza di regime tra il diritto alla conservazione del posto di lavoro garantito dalla formulazione originaria dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e la tutela indennitaria per i dipendenti delle imprese sotto i 15 dipendenti, era entrata in crisi con la riforma Fornero e le modifiche della norma dello Statuto. La Corte decide garantendo un favor diffuso per tutti i lavoratori dipendenti a prescindere dalle dimensioni aziendali, individuando nella cessazione del rapporto di lavoro il momento dal quale decorrono i 5 anni entro i quali possono essere fatti valere i crediti di natura retributiva.
La prescrizione dei crediti retributivi e la stabilità del rapporto di lavoro
È pacifico che il termine prescrizionale per far valere il diritto di credito retributivo è quinquennale, così come previsto dall'art. 2948 c.c. Fino all'intervento della riforma Fornero (Legge 92/2012) era altrettanto pacifico il diverso termine della sua decorrenza: dalla maturazione del diritto, e dunque anche in corso di rapporto di lavoro, per tutti i lavoratori garantiti dalla cosiddetta “tutela reale” (conservazione del posto di lavoro e reintegra in caso di licenziamento illegittimo, ai sensi dell'art. 18 dello Statuto); dalla cessazione del rapporto di lavoro per quelli soggetti alla “tutela obbligatoria”, che in applicazione dell'art. 8 della legge sui licenziamenti individuali (Legge 604/66), vede l'illegittimità del licenziamento sanzionata con una indennità a carico del datore di lavoro, ma non con la reintegrazione nel posto di lavoro.
La ragione di questa distinzione, speculare ai due diversi regimi, è tradizionalmente ascritta alla necessità di garantire il lavoratore, a causa della condizione psicologica di timore (c.d. metus) nella quale versa in costanza del rapporto di lavoro, tale da indurlo a non reclamare i propri diritti per paura di perdere il posto di lavoro. Condizione di timore che non poteva ritenersi sussistente quando, al contrario, gli fosse apprestato un adeguato regime di garanzia della conservazione del posto di lavoro, e quindi una stabilità reale del rapporto, come accadeva con l'art. 18 dello Statuto che, nella sua formulazione originaria, riconosceva la tutela reintegratoria per qualsiasi causa di illegittimità di licenziamento irrogato nelle aziende con più di quindici dipendenti.
La riforma Fornero ed il Jobs Act
Il quadro consolidato è profondamente mutato, ed il rigore dei predetti confini più labile, con la riforma operata dalla Legge 92/2012, e sostanzialmente confermata dal D.Lgs. 23/2015. In entrambi i casi infatti, il requisito dimensionale dell'azienda non è più fattore esclusivo scriminante per individuare il diritto o meno alla conservazione del posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo ma, anzi, tale eventualità è relegata a fattispecie oggettivamente residuali: licenziamento orale, ritorsivo, discriminatorio, determinato da motivo illecito esclusivo.
A prescindere dalla ricorrenza di tali eventualità, è evidente il significativo cambiamento, che nega ogni automaticità all'applicazione della tutela reale e conseguentemente nega al lavoratore quel regime di effettiva stabilità invece garantito dallo Statuto.
Il problema non è di poco momento, tant'è che negli anni numerose sono state le dispute sul tema, ed è indicativo che proprio nella fattispecie decisa dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, in entrambi i gradi di merito, i giudici avevano invece optato per la soluzione opposta (decorso della prescrizione in corso del rapporto), sulla scorta della considerazione che comunque la potenziale applicabilità alla fattispecie della tutela reale consentiva di negare la ricorrenza della condizione psicologica di timore del lavoratore, dovendo ritenere irrilevante un'attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni estranee alle rivendicazioni retributive.
La decisione della Cassazione
La Corte con la sentenza n. 26246/2022 respinge tale posizione, indicando nella cessazione del rapporto di lavoro il dies a quo per la decorrenza della prescrizione per i diritti di credito di natura retributiva dei lavoratori.
Si tratta di una questione, affermano i giudici con la sentenza in esame, che “ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l'insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il c.d. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell'indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla Legge 300/70, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto”.
Secondo la Corte, le modifiche tutt'altro che trascurabili intervenute sul regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, e l'impatto soprattutto rispetto alle realtà aziendali che il requisito dimensionale superiore alle 15 unità, prima del 2012, collocava sotto l'egida dell'art. 18 tout court, richiede una puntuale riflessione sul concetto di stabilità reale e sulla sua portata nell'impianto costituzionale, pur nella presupposta consapevolezza della differenza, tema pure questo evidenziato dalla sentenza, tra il diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione, ed il diritto al posto di lavoro, che non ha riconosciuto un impianto di garanzie di identico rango. Così, proseguono i giudici, deve ritenersi “stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.”
Gli effetti della riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori
Tale stabilità sostanziale, secondo quanto puntualmente motivato dalla sentenza, non è (più) possibile che sia riconosciuta all'attuale impianto di tutela scaturente dal vigente art. 18 (ed evidentemente tanto meno per il regime delle c.d. “tutele crescenti”). Ciò perché “non è dubbio che le modifiche apportate dall'art. 1, c. 42, Legge 92/2012, e poi dagli artt. 3 e 4 D.Lgs. 232015, all'art. 18 Legge 300/70 abbiano comportato il passaggio da un'automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell'ultima retribuzione globale di fatto) ad un'applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”).” Secondo i giudici dunque, “al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli artt. 3 e 4 D.Lgs. 23/2015, abbia ormai un carattere recessivo.”
Appare oggettivamente difficile confutare tale rilievo, considerato che non possono opporsi dubbi alla circostanza che l'attuale regime di (astratta) tutela reale non assicura un regime di stabilità paragonabile a quello originario. Tale osservazione risulta doverosa, alla luce della giurisprudenza costituzionale, pure questa citata dalla sentenza della Corte di Cassazione, che ne ha confermato la liceità sotto quel profilo, e prescinde da un giudizio di merito circa l'apprezzabilità della scelta, che appartiene agli orientamenti di politica legislativa.
Il principio affermato
In esito all'ampio scrutinio della propria giurisprudenza e di quella costituzionale, della quale la Corte di cassazione dà atto diffusamente nel corpo della sentenza n. 26246/2022, la pronuncia afferma pertanto l'esplicito principio di diritto, per il quale “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della Legge 92/2012 e del D.Lgs. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della Legge 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.”
Fonte: Cass. 6 settembre 2022 n. 26246