Le holding di famiglia
Accade spesso che le esigenze di tutela e pianificazione patrimoniale e successoria trovino nella holding lo strumento di miglior gestione in rapporto alla specifica situazione in esame.
Deve fin da subito essere chiaro come il termine holding sia polisemantico ed includa entità di diversa natura giuridica (società di persone e società di capitali, manche anche trust aventi la medesima finalità) e diversa natura funzionale (holding statiche, dinamiche, operative, miste etc.).
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Allo stesso modo, le modalità per addivenire alla costituzione della holding sono molteplici e dipendono dalla situazione in concreto oggetto di esame. Si possono quindi ipotizzare, tra gli altri, dei conferimenti aventi o meno i requisiti per la neutralità fiscale (art. 177 c. 2 e 2-bis TUIR) oppure anche una cessione da parte dei soci fondatori.
In questa moltitudine di situazioni il presente contributo si concentra sulla costituzione, o per meglio dire sulla “dotazione”, di una holding famigliare statica sotto forma di s.r.l., mediante cessione di una partecipazione di minoranza effettuata da parte di uno dei soci fondatori.
Gli acquisti “pericolosi”
Le ragioni per le quali può risultare preferibile procedere mediante cessione di beni, in luogo di un conferimento, possono essere molteplici. Ad esempio ed a maggior ragione nell'ipotesi in cui il conferimento risultasse in ogni caso realizzativo ai sensi dell'art. 9 TUIR, non essendo applicabile il regime del realizzo controllato previsto dall'art. 177 c. 2 e 2-bis TUIR per carenze dei presupposti normativi, l'apporto del bene in società sarebbe comunque soggetto a tassazione, ma, d'altro canto, in presenza di più soci, esso potrebbe spostare gli equilibri partecipativi o quantomeno (se parte del valore è imputato a sovrapprezzo invece che a capitale) rendere non proporzionale l'apporto di un singolo rispetto a quello degli altri, configurando una situazione di disparità di trattamento, non sempre voluta.
Data questa premessa deve essere tenuta in considerazione la normativa civilistica disposta dall'art. 2465 c. 2 c.c. relativa ai c.d. acquisti “pericolosi”.
Sono tali gli acquisti:
- effettuati dalla società ove il cedente sia un socio fondatore;
- avvengano entro i 12 mesi dall'iscrizione della società nel registro delle imprese;
- per un corrispettivo pari o superiore al 10% del capitale sociale.
In tale circostanza, la norma richiede, in forza del rimando al c. 1 dell'art. 2465 c.c., la presentazione di una perizia giurata di stima redatta da un revisore legale o da una società di revisione legale iscritti nell'apposito registro, anche scelti liberamente dalle parti. Detta perizia deve contenere la descrizione dei beni ceduti, i criteri di determinazione adottati e l'attestazione che il valore di tali beni sia almeno pari a quello attribuito al corrispettivo
Tale procedura non risulta necessaria in caso di cessione a valore di mercato, stante il rinvio operato dall'art. 2465 c. 3 all'art. 2343-bis c. 4 c.c. Tuttavia, è evidente che nel caso di partecipazioni non quotate, l'adozione di una perizia attestante il valore del bene risponda ad un requisito di prudenza per gli amministratori (che hanno una responsabilità specifica dettata dall'art. 2343-bis c. 5 c.c., anch'esso espressamente richiamato dall'art. 2465 c. 3 c.c.) nonché, trovandoci in un ambito familiare, anche a una necessità di trasparenza verso gli altri soci-familiari a tutela della serenità dei rapporti.
Il corrispettivo: tra valore nominale e di mercato
Un aspetto non di secondo rilievo riveste il corrispettivo da attribuire al bene. È infatti possibile identificare il corrispettivo in misura pari al valore nominale (o comunque al costo fiscale) delle quote o delle azioni oggetto di cessione (ammesso che esso sia inferiore al valore risultante dalla perizia di stima).
Tale valorizzazione sarebbe funzionale a sterilizzare la plusvalenza potenzialmente emergente da un'operazione di compravendita ai sensi dell'art. 68 c. 6 TUIR. Ciò che rileva ai fini tributari come elemento di raffronto con il costo fiscale è infatti il corrispettivo e non già il valore normale. In altri termini non è possibile per l'amministrazione finanziaria contestare il prezzo incassato dal cedente, salvo – ovviamente – portare prove ed elementi concreti a supporto della percezione di un prezzo superiore a quello dichiarato tali da consentire di sostenere un'evasione erariale oppure una simulazione del negozio. A tal riguardo, un indicatore di allerta riguarda proprio le operazioni effettuate in ambito famigliare (Circ. GdF prot. n. 1/360000 del 20/10/1998). Allo stesso modo non sembrano rinvenibili censure sotto il potenziale profilo elusivo dell'operazione (sul punto Parere Comitato Consultivo sulle norme antielusive n. 6 del 10/04/2003).
Si tralasciano qui volutamente, per necessità di sintesi, i possibili rischi di contestazione in termini di fiscalità indiretta (imposta sulle donazioni) derivanti da conferimenti o cessioni che possano sottendere una surrettizia liberalità indiretta a favore degli altri soci.
Tuttavia, un corrispettivo così determinato potrebbe non rispondere alle logiche di equità inter-familiare laddove i soci della società siano più d'uno ed il cedente sia uno solo di essi.
In una tale situazione potrebbe essere legittimo per il socio cedente chiedere il riconoscimento del valore effettivo del bene apportato.
La conseguenza fiscale di questo comportamento sarebbe l'emersione di una plusvalenza imponibile con imposta sostitutiva del 26% ai sensi dell'art. 5 c. 2 D.Lgs. 461/97.
Rischi connessi alla rivalutazione
A questo punto potrebbe essere paventata l'ipotesi di procedere alla rivalutazione della partecipazione ceduta al fine di sfruttare l'aliquota di maggior favore del 14%, operazione i cui termini sono stati riaperti fino al 15 novembre 2022 (ai sensi del DL 17/2022 conv. in L. 34/2022); a corollario è necessario precisare che, nella successiva immediatezza della costituzione, la holding famigliare non ha disponibilità liquide proprie per ottemperare al debito, sicché lo stesso sarebbe ragionevolmente ripagato con i flussi derivanti dai propri attivi (nel caso in esame: dividendi o cessione della partecipazione). Sul punto è quindi necessario verificare il conseguimento di un eventuale vantaggio fiscale indebito costituito da benefici anche non immediate, in assenza di valide ragioni economiche dell'operazione. Laddove si sconfini in una ipotesi di operazione circolare (es. leveraged cash out), per consolidato orientamento giurisprudenziale e di prassi, l'operazione sarebbe considerata abusiva (tra gli altri, v. Princ. Dir. AE 23 luglio 2019 n. 20). Chiaramente considerazioni più mirate si possono fare solo sui casi specifici, ma l'attenzione al tema deve essere massima.
Da ultimo, sembra utile richiamare il fatto che sovente uno degli amministratori, se non l'amministratore unico, coincide con il socio cedente. Dovranno quindi essere tenute in considerazione le norme che disciplinano il conflitto di interesse e il contratto concluso con sé stesso, che richiedono l'autorizzazione dell'assemblea (artt. 1394 e 1395 c.c.).