sabato 18/01/2025 • 06:00
In presenza di una struttura sociale con pochi soci, opera la presunzione, basata su una massima di esperienza, di distribuzione agli stessi degli utili extracontabili non dichiarati dalla società. Lo ha stabilito la CGT II Lombardia 7 gennaio 2025 n. 34.
Il caso
Oggetto della lite era un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate a carico di un contribuente con il quale veniva ripreso a tassazione un reddito da capitale - fermo restando il reddito da lavoro dipendente - in virtù della sua qualità di socio (al 75%) di una società di capitali. L'Ufficio, stante la ristrettezza della compagine sociale, aveva ritenuto operante la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati dalla società. Con il ricorso, il contribuente non aveva contestato l'avviso di accertamento emesso a carico della società, bensì insistito sulla propria totale estraneità alla gestione, per come risultante dagli esiti del correlato procedimento penale. Questi gli elementi evidenziati dal GIP in tale procedimento: il contribuente era un lavoratore dipendente privo di disponibilità finanziarie; affetto da disturbi psichiatrici; resosi disponibile alla intestazione delle quote su indicazione del suo datore di lavoro; società utilizzata per attività illecite e reati fiscali (accollo di debiti fiscali di terzi tramite utilizzo di crediti falsi in compensazione; emissione e utilizzo di FOI); amministratore di fatto arrestato in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare; legale rappresentante di altra società di cui era dipendente il ricorrente non indagato ma solo sentito come teste.
I giudici di primo grado accoglievano il ricorso ritenendo che il contribuente avesse fornito sufficienti e convergenti argomentazioni tali da far emergere un contesto che portava ragionevolmente ad escludere un suo qualsiasi ruolo o coinvolgimento nella società tant'è che il dominus - a cui veniva imputata la frode fiscale - era, tra gli altri, proprio il suo datore di lavoro, titolare di altra società che lo aveva assunto come operaio e lo aveva indotto, per questo, ad intestarsi la quota sociale. Pur non essendo l'accettazione di tale proposta certamente un comportamento accorto e prudente, la Corte di primo grado valorizzava gli esiti delle indagini penali da cui non erano emerse responsabilità a carico del ricorrente (diversamente dall'altro socio-amministratore), apparendo così plausibile la sua estraneità e meno che probabile la sua partecipazione alla spartizione di utili. Ciò, concludeva il primo Giudice, “bastava a fare venire meno il requisito di presunzione grave, precisa e concordante per l'assenza dell'elemento dell'univocità”.
La “prova contraria” deve essere rigorosa e documentata
Di diverso avviso i giudici d'appello i quali hanno preliminarmente ricordato l'orientamento consolidato di legittimità (da ultimo, Cass. 26473/2024) secondo cui, in presenza di una struttura sociale con pochi soci, “opera la presunzione di distribuzione agli stessi degli utili extracontabili non dichiarati dalla società”. Si tratta, hanno precisato gli interpreti, di una presunzione basata su una massima di esperienza, ossia che, nelle società a ristretta base societaria, vi è una maggiore probabilità che vi sia un controllo reciproco sulle operazioni sociali, nonché una tendenziale percezione diretta dei ricavi non dichiarati. In questa situazione sussiste un onere probatorio rigoroso a carico del socio che, peraltro, deve offrire la prova in una specifica e definita direzione. In altri termini, nelle società di capitali con una ristretta compagine sociale, “gli utili extracontabili accertati in capo alla società, possono presumersi distribuiti pro quota ai soci, salvo prova contraria da parte dei medesimi, senza che ciò integri applicazione di una doppia presunzione”. I giudici territoriali hanno quindi osservato che la prova contraria offerta dal socio sotto il profilo della sua estraneità alla gestione deve essere rigorosa e documentata e non limitata a mere affermazioni di disinteresse o di essere estraneo al controllo aziendale.
Nel caso di specie, secondo la Corte, da un lato, l'avviso di accertamento emesso a carico della società era diventato definitivo (e peraltro il contribuente non ne aveva contestato il merito), dall'altro, egli si era limitato ad affermazioni generiche e non adeguatamente documentate. Sul punto, i giudici hanno affermato che:
L'onere della prova nel processo tributario
I giudici hanno altresì ricordato, con riferimento al testo del “nuovo” art. 7 c. 5-bis D.Lgs. 546/92, che tale norma non impone un diverso e più gravoso onere probatorio per l'Amministrazione o per il contribuente rispetto a quanto già previsto dalla normativa tributaria, bensì è prevista al solo fine di attribuire un ruolo centrale alla fase dibattimentale. In tal senso, nel caso di specie, ha concluso la Corte lombarda, l'onere probatorio gravante sul contribuente non era nemmeno stato assolto nelle altre direzioni possibili rispetto alla sua estraneità alla gestione, ossia nel senso che il contribuente non fosse socio o che i soldi ricavati (anche se non dichiarati) fossero stati reinvestiti nelle attività sociali.
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Valeria Nicoletti
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