mercoledì 04/12/2024 • 06:00
L'inserimento di una nuova risorsa nell'organico aziendale comporta un significativo impegno iniziale, in particolare sotto il profilo formativo. Per tutelare l’investimento, le imprese possono inserire un patto di stabilità nel contratto di lavoro, per garantire la permanenza del lavoratore in azienda per un periodo minimo.
L'assunzione di una nuova risorsa da parte di un'impresa rappresenta, nella maggior parte dei casi, un investimento significativo, soprattutto per quanto riguarda i costi connessi alla formazione, all'inserimento e all'adattamento del lavoratore al contesto aziendale. Tale investimento può comprendere non solo risorse economiche, ma anche tempo e impegno da parte di altri dipendenti, necessari per favorire il graduale apprendimento delle competenze richieste e l'allineamento con le procedure operative interne.
In questo scenario, molte aziende possono avvertire la necessità di assicurarsi che il lavoratore, una volta formato, rimanga in azienda per un periodo di tempo congruo, tale da consentire un adeguato ritorno sull'investimento effettuato. Per rispondere a questa esigenza, l'ordinamento giuridico consente alle parti di inserire nel contratto di lavoro una clausola specifica, nota come patto di stabilità. Tale accordo prevede che il dipendente, si impegni a non recedere dal rapporto di lavoro prima di una determinata scadenza temporale, garantendo così al datore di lavoro la possibilità di beneficiare in modo duraturo delle competenze acquisite dal lavoratore.
Aspetti principali
È prassi consolidata prevedere che, in ragione del ruolo rivestito dal lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale e in relazione alla formazione specialistica – non obbligatoria – fornita nei primi mesi di attività, le parti concordino consensualmente l'impegno del lavoratore a non recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro prima del decorso di un periodo di tempo prestabilito. Tale vincolo trova giustificazione nell'interesse reciproco alla stabilità del rapporto lavorativo e alla valorizzazione degli investimenti formativi. Appare altresì importante, in tal senso, evidenziare che in tale ambito è fatta salva la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro, per entrambe le parti, nelle ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c.
In tale contesto, ove di norma è prevista l'applicazione di una penale avente carattere risarcitorio in ipotesi di inadempimento agli obblighi previsti, le parti stipulanti hanno piena facoltà di determinare liberamente i contenuti del più volte richiamato patto, purché dette disposizioni si conformino al quadro normativo civilistico vigente e rispettino i principi sanciti dall'articolo 36 della Costituzione, che, come noto, garantisce la proporzionalità e l'adeguatezza della retribuzione rispetto alla qualità e quantità del lavoro svolto. Infatti, nelle fattispecie in cui il trattamento retributivo concordato non superi il limite minimo costituzionale, esso non può compensare, in alcuna misura, la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. Ne deriva, dunque, così come precisato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 15447/2017, che risulta dovuto al lavoratore un corrispettivo della limitazione delle sue facoltà rispetto al tipo contrattuale, affinché non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo della prestazione fondamentale di lavoro. Detta corrispettività, tuttavia, deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale dì ciascuna parte.
I principali orientamenti della giurisprudenza
Requisito di validità del patto è certamente la previsione di un corrispettivo a favore del soggetto che subisce limitazioni nella libertà di recesso. In particolare, la giurisprudenza muove dal principio generale secondo cui nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell'impegno “non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni - bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni”. L'equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso - fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso - alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale. (Cass. n. 14457/2017). Giova, altresì, ricordare che la Suprema Corte, con orientamento consolidato (Cass. n. 18122/2016, Cass. n. 17010/2014; Cass. n. 17817/2005), ha più volte chiarito che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all'art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata. Tantomeno, vengono riscontrate criticità relative all'interesse datoriale sotteso a tale tipologia di pattuizione, in virtù della volontà di assicurarsi nel tempo la continuità della prestazione in vista di un programma aziendale per la cui realizzazione ritenga utile l'apporto di quel dipendente.
Da ultimo, giova ricordare che all'interno del patto di stabilità, nell'equilibrio delle posizioni contrattuali, il corrispettivo concesso a fronte della limitazione contrattuale del libero recesso a carico del lavoratore, può assumere forme diverse - solitamente una maggiorazione della retribuzione o, più raramente, una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore - ma in ogni caso non può essere ricompreso nel minimo contrattuale costituzionalmente garantito, ossia deve essere separato ed ulteriore rispetto a quest'ultimo.
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Marco Proietti
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