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giovedì 22/06/2023 • 06:00

Lavoro Cessione del credito maturando

Fallimento e TFR conferito alla previdenza complementare

La Cassazione, tramite la sentenza n. 16116 del 7 giugno 2023, consente di comprendere chi debba essere considerato soggetto legittimato a presentare domanda di ammissione nella massa creditoria. Nel riconoscere la natura di delegazione di pagamento del conferimento del TFR, la Cassazione non censura la cessione, rimettendo ad una verifica della volontà delle parti.

di Dario Ceccato - Founder Ceccato Tormen & P

di Roberto Artusi Sacerdoti - Avvocato in Padova

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  • Tempo di lettura 1 min.
  • Ascolta la news 5:03

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In ambito fallimentare (oggi liquidazione giudiziale), non di rado accade che il datore di lavoro risulti inadempiente, oltre che nei confronti delle retribuzioni corrisposte, anche in relazione all'obbligo di corrispondere il trattamento di fine rapporto (TFR) maturato e conferito ai fondi di previdenza complementare ex D.Lgs. 252/2005 (e non solo). Sul tema, ci si interroga anzitutto in merito a chi sia il titolare di tale credito e, di conseguenza, chi sia legittimato a procedere all'insinuazione dello stato passivo per soddisfare la propria pretesa creditoria.

A tali interrogativi, sollevati dalla giurisprudenza in materia ormai da anni, ha parzialmente risposto la recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 16116 del 7 giugno 2023) ancorando definitivamente, senza tuttavia fornire una risposta univoca, la legittimazione a procedere all'insinuazione dello stato passivo alle due diverse fattispecie ravvisabili nel caso, quali: delegazione al pagamento e cessione al Fondo.

Titolarità delle somme e legittimazione attiva

Per quanto attiene al primo interrogativo, l'incertezza interpretativa sollevata in primis dalla giurisprudenza deriva anzitutto dalla discrasia tra quanto disposto dalla legge delega per la riforma della previdenza complementare (Legge 243/2004) e la successiva disciplina di dettaglio contenuta nel decreto delegato (D.Lgs. 252/2005).

Infatti, se la legge delega introduce la legittimazione dei fondi stessi “a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l'eventuale danno derivante dal conseguimento dei relativi rendimenti”, tale disposto non ha trovato accoglimento nel D.Lgs. 252/2005, il quale non riporta alcuna indicazione in merito a chi sia il titolare del credito per il TFR conferito alla previdenza complementare, confermando una situazione di forte ambiguità sul tema.

In assenza di un puntuale pronuncia da parte del Legislatore, in giurisprudenza si registrano due principali orientamenti interpretativi.

Secondo un primo filone, il conferimento integrerebbe per natura una cessione del credito ai sensi dell'art. 1260 c.c., per cui solo il fondo pensione sarebbe legittimamente ad agire in giudizio per il recupero del TFR non versato (si citano, a titolo esemplificativo: Trib. Padova, 25 ottobre 2012; Trib. Milano 3 maggio 2017 n. 1276).

Altre pronunce (Trib. Taranto 1° ottobre 2015 n. 3678, Trib. Treviso 23 gennaio 2012, Trib. Milano 5 settembre 2018 n. 1925), diversamente, concludono per la sussistenza di una delegazione di pagamento ai sensi dell'art. 1269 c.c., riconoscendo anche al lavoratore la legittimazione ad agire per ottenere la corresponsione delle somme non versate dal datore al fondo.

Secondo un primo orientamento della Corte di Cassazione – il riferimento, in questo caso, è alla sentenza n. 4626 del 15 febbraio 2019 – “occorre accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato: da una delegazione di pagamento, con incarico confermato dal lavoratore al datore di versare le quote di TFR al fondo, ovvero di loro cessione, quale credito futuro, direttamente dal lavoratore al fondo, o strumenti ad essi assimilabili”.

Analogamente, la Corte di Cassazione nella recente sentenza in trattazione (7 giugno 2023, n. 16116) ha affermato che “in tema di previdenza complementare, il generico riferimento, contenuto nel D.Lgs. 252/2005, art. 8, c. 1, al “conferimento” del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari, lascia aperta la possibilità che le parti, nell'esplicazione dell'autonomia negoziale loro riconosciuta dall'ordinamento pongano in essere non già una delegazione di pagamento bensì una cessione di credito futuro”.

Per tale ragione la Corte afferma che la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR non versate dal datore di lavoro al fondo di previdenza complementare “spetta, di regola, al lavoratore” salvo che “dall'istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo predetto, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva”.

La Corte di Cassazione in tale non assume pertanto una posizione univoca: rimettendo ad una valutazione “caso per caso” del particolare conferimento operato dal lavoratore in merito alla corresponsione del TFR maturato al fondo di previdenza complementare.

Le due fattispecie in esame: cessione del credito o delegazione di pagamento?

Come desumibile anche dal breve estratto della sentenza in esame della Corte di Cassazione, la qualificazione della fattispecie come cessione del credito oppure come delegazione di pagamento rappresenta l'elemento qualificante o fondativo della legittimazione all'insinuazione dello stato passivo in sede fallimentare. Analizziamo pertanto in breve gli elementi strutturali e caratterizzanti di entrambi gli istituti, per capire a quale dei due sia riconducibile, caso per caso, la fattispecie del conferimento del TFR ai sensi dell'art. 8, c. 1, D.Lgs. 252/2005.

Il concetto di cessione, definito dall'art. 1260 c.c., presuppone che il creditore possa trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, purché lo stesso non abbia carattere strettamente personale o che il trasferimento non sia vietato da disposizioni di legge. Di particolare rilevanza il fatto che, a seguito del trasferimento del credito, il cedente rimanga estraneo alle vicende inerenti all'adempimento del debitore ceduto verso il cessionario (ad eccezione delle garanzie previste dagli artt. 1266 e 1267 c.c.). Tornando al caso in esame, dunque laddove si presupponga il conferimento dell'istituto ex art. 2120 c.c.  come cessione del credito al fondo di previdenza, il lavoratore perderebbe il proprio diritto all'insinuazione allo stato passivo.

Al contrario, l'effetto obbligatorio tipico della delegazione di pagamento risiede nella duplicazione delle posizioni creditorie (si esclude dunque l'esclusione, ravvisabile nel caso della cessione). Pertanto, il delegante mantiene la titolarità del credito (sussidiaria) e, in caso di inadempienze, potrà esercitare le proprie pretese verso l'obbligato (anche attraverso l'insinuazione del proprio credito nello stato passivo).

Un'ulteriore differenza tra i due istituti si ravvisa nel fatto che nella cessione del credito non sia necessario il consenso del debitore ceduto, a differenza di quanto avviene nella delegazione.

Inoltre, nella delegazione al pagamento il delegante può esercitare il proprio potere di revoca, come disciplinato dall'art. 1270 c.c., mentre ciò non è possibile nella cessione del credito.

Per tali ragioni, analizzando le caratteristiche principali del conferimento del TFR ai fondi di previdenza complementare, l'interpretazione predominante (e antecedente alla sentenza in esame) – promossa, sembrerebbe,  anche dall'INL con nota n. 1436 del 2020 (riportando quanto riferito dalla INL, “nel caso in esame, il creditore dell'obbligazione contributiva non è il lavoratore ma il fondo di previdenza complementare, poi tenuto all'erogazione in suo favore della prestazione previdenziale”) – individuava nella cessione la fattispecie più aderente all'ipotesi in questione.

Ciò in ragione del fatto che:

  1. il datore di lavoro non possa sottrarsi all'obbligo di versare il TFR al fondo di previdenza (si richiama, a tal proposito, l'irrilevanza del consenso ravvisabile nell'ipotesi di cessione);
  2. la scelta del lavoratore di devolvere il TFR alla previdenza complementare è irreversibile, pertanto non è la possibile la revoca come previsto per la delegazione;

In parziale contrapposizione a questa tesi, si evidenzia quanto riportato nella Sentenza della Corte di Cassazione del 7 giugno 2023 (n. 16116), laddove la medesima definisce l'insinuazione allo stato passivo come un “diritto che compete in prima battuta al lavoratore nei confronti del datore di lavoro, tanto che, in caso di fallimento di quest'ultimo, è mera facoltà del lavoratore richiedere l'intervento del fondo di garanzia, il quale poi si surroga al lavoratore nell'ammissione al passivo fallimentare”.

Alla luce di quanto evidenziato, deve ritenersi che la titolarità del credito per il TFR non versato dal datore di lavoro al fondo di previdenza complementare non possa individuarsi a priori, ma che la stessa debba essere disaminata caso per caso.

Infatti, la posizione della Corte lascia presuppore che il generico riferimento di cui all'articolo 8, comma 1, D.Lgs. 252/2005, recante l'espressione “conferimento” del TFR maturando ai Fondi di Previdenza complementare, pone una particolare rilevanza all'autonomia negoziale riconosciuta alle Parti, libere di porre in essere una delegazione di pagamento (art. 1268 c.c.) o una cessione di credito futuro (art. 1260 c.c.).

Conclusioni

L'opinione della suprema Corte appare condivisibile nella fattispecie in trattazione. La mancata attuazione della legge delega del 2004 e, pertanto, l'assenza di una presa di posizione da parte del legislatore consentono di ritenere generica la formulazione del “conferimento” dell'istituto ex art 2120 c.c. al fondo di previdenza complementare.

In tal senso anche la COVIP, organo di vigilanza dei fondi, si è espressa nella necessità di valutare di volta in volta le casistiche in quanto “l'estrema varietà delle modulistiche in uso, come anche risultante dalla documentazione – non del tutto leggibile – trasmessa, e delle formule di cessione dei crediti utilizzabili, non consente di dare una risposta univoca al quesito avanzato. Anche in considerazione di ciò, è, quindi, da intendersi rimessa alle forme pensionistiche complementari l'analisi puntuale delle condizioni generali di contratto e delle obbligazioni che ne scaturiscono” (COVIP, luglio 2009).

C'è però un argomento che merita di essere valutato a latere.

Fino ad ora si è discusso in ordine all'istituto del trattamento di fine rapporto.

Cosa ben diversa sono i contributi alla previdenza complementare che discendono da una obbligatorietà / previsione o del contratto collettivo o di regolamenti aziendali. Se la eventuale quota del lavoratore potrebbe seguire (da valutare) il percorso del TFR, a diversa e pacifica conclusione si deve pervenire per quanto ai contributi dovuti dal datore di lavoro ai fondi (per esempio c.d. “chiusi”). In questo caso le argomentazioni già evidenziate dalla nota dell'INL trovano sicuro fondamento in quanto “assume rilevanza la decisione delle Sezioni Unite del 9 marzo 2015, n. 4684 che ha definitivamente escluso la natura retributiva del contributo integrativo posto a carico del datore di lavoro dai contratti e accordi collettivi riconoscendone, invece, la natura esclusivamente previdenziale. In particolare, le Sezioni Unite hanno precisato che “l'obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, […]”

Ergo. Per la contribuzione ai fondi di previdenza di sponte datoriale, il titolato all'insinuazione nel passivo non potrà che essere il fondo stesso, con privilegio non retributivo ma previdenziale ex art. 2778, n. 1, c.c.

Fonte: Cass. 7 giugno 2023 n. 16116

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